Dopo 60 anni torna nelle sale cinematografiche “West Side Story”, seconda riduzione cinematografica del celeberrimo omonimo musical – liberamente ispirato al “Romeo e Giulietta” di Shakespeare – scritto da Stephen Sondheim (parole), Jerome Robbisn (coreografie) su musiche di Leonard Bernstein, che ha debuttato al National Theatre di Washington il 19 agosto del 1957. L’opera ha avuto un successo planetario, e continua a essere rappresentata nei teatri di tutto il mondo. La prima trasposizione cinematografica è del 1961, per la regia di Jerome Robbins e Robert Wise ed interpretato da Natalie Wood, Richard Beymer, Rita Moreno, George Chakiris e Russ Tamblyn. Il film ha ottenuto dieci Premi Oscar. Dietro la macchina da presa c’è ora Steven Spielberg che ci ripropone, sostanzialmente intatta (con poche variazioni rispetto all’originale), la storia dell’amore contrastato tra Tony e Maria nell’Upper West Side della New York della metà degli anni ’50, teatro della rivalità di due bande di giovani: gli Sharks, composta da immigrati portoricani, e i Jets, una gang di ragazzi bianchi, italiani, irlandesi, ebrei di seconda generazione, che si sentono minacciati dai primi. Tony, un ex Jets e miglior amico del loro capo, Riff, si innamora di Maria, la sorella di Bernardo, il leader degli Sharks. Il loro amore, però, non riuscirà a sconfiggere i pregiudizi e l’odio razziale che si respira nelle strade del quartiere e nel quale sono cresciuti questi giovani abbandonati a loro stessi, incapaci anche solo di pensare a un futuro diverso, a una possibilità di riscatto e riconciliazione. E mentre gli uomini vagheggiano orgogliosamente di un ritorno in patria, le donne, prigioniere di una visione maschilista, che le vorrebbe mero strumento per riaffermare il proprio dominio, sanno bene che questo non sarà possibile e, sole, si rimboccano le maniche per dare ai figli una possibilità di futuro. È il sogno americano, attualizzato e declinato da Spielberg non tanto nella ricerca del successo, della ricchezza, quanto piuttosto della possibilità di una vita semplicemente dignitosa. Il regista governa la macchina da presa con la sua consueta maestria per portarci dentro l’Upper West Side (in avanzata fase di demolizione per far posto al Lincoln Center); ne esplora ogni angolo da ogni possibile inquadratura: tra calcinacci polverosi e grigi palazzi sovraffollati, locali e appartamenti spogli e quasi fatiscenti che si animano ed esplodono improvvisamente di fantastiche, coloratissime e sbalorditive coreografie. Le canzoni, entrate nell’immaginario collettivo di molte generazioni, fanno il resto. Ma questo potrebbe non bastare. Rivisitare un film blasonato come “West side story” comporta sempre una buona dose di rischio, primo fra tutti la scelta degli interpreti. Certamente Spielberg ha scelto i suoi interpreti Ansel Elgort (“Colpa delle stelle”, 2014; la saga “Divergent”, 2014-16) nel ruolo di Tony e l’esordiente Maria Zegler in quello di Maria, anche nella prospettiva di avvicinare i giovani a un genere molto caratterizzato, come il musical, e a una storia che va comunque letta in un contesto culturale ben preciso. A ben vedere, però, la loro interpretazione risulta forse un po’ troppo misurata per esprimere l’amore assoluto e totalizzante che li coinvolge. Decisamente più grintose e incisive le interpretazioni dei due capibanda Riff (Mike Faist) e Bernardo (David Alvarez), come pure di Ariana De Rose in quello della forte, determinata, ma disperata Anita. Un discorso a parte merita Rita Moreno, che nel film precedente vinse l’Oscar proprio nel ruolo di Anita: a novant’anni si rimette splendidamente in gioco con il personaggio di Valentina, generosa e saggia, memoria storica del quartiere e ponte tra ciò che è stato e ciò che sarà, lei, portoricana, sposata a un bianco. Sarebbe bello, se il destino le riservasse la sorpresa di un altro Oscar.
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