Da più parti, senza distinzioni di
età, sesso, cultura, professione, pensieri convergenti confluiscono nella terra
di mezzo, questo pantano acquitrinoso in cui si affonda lentamente e
inesorabilmente, aggrappandosi all’unico salvagente possibile: il reddito di
fratellanza. Sì, proprio così! Il reddito di fratellanza che, senza voler
discriminare né il reddito di cittadinanza, né il reddito di emergenza, si
impadronisce della scena, anche se le immagini non sono nitide, i dialoghi sono
intermittenti e il canovaccio deve essere ancora scritto. Si percepisce
nell’aria questo desiderio di cambiamento, questa voglia di lasciare parte di
quello che c’era prima della pandemia e ricostruire, post Covid-19, rapporti
sociali autentici sia nella vita privata, sia nell’ambiente di lavoro, senza
tatticismi, strumentalizzazioni, sovrastrutture fasulle e melmose; un tessuto
sociale inclusivo, perciò vivo, più permeabile e incline a contaminazioni
feconde, che solo la distinzione può dare; senza più periferie di ogni tipo.
Sembra di imbatterci in una partoriente, che soffre nel travaglio, ma in lei, e
in ciascuno di noi, c’è l’attesa del parto, della nascita di questa nuova
creatura, che porta con sé una nuova politica, una nuova società, una nuova
sanità pubblica, una nuova burocrazia, anzi meno burocrazia, esageriamo: meno,
meno, meno burocrazia, così scimmiottiamo le agenzie di rating, che sentenziano
anche sulla scelta del colore della carta igienica, aspetto assolutamente
secondario, e magari trascurano i dettagli tecnici importanti come il singolo,
doppio o triplo velo.
Ma cos’è questo reddito di
fratellanza? Non lo sappiamo. Non è scritto da nessuna parte e tocca a noi
scriverlo. Questa è la sfida. Abbiamo vissuto i tempi della pandemia e possiamo
impegnarci a non ritornare totalmente come prima. Ciò che non è bello, giusto e
buono per la collettività, l’abbandoniamo. Non lo riproponiamo come
indispensabile, perché non lo è. Da che parte iniziamo? Intanto, se vogliamo
parlare di fratellanza, dovremmo raccogliere esperienze positive di fraternità
vissuta e condividerle. Per diffondere una cultura di fraternità, di
inclusione, di apertura, di dialogo, dovremmo trasformare la vita in parole.
Prima vivere in questo modo e poi comunicarlo, non viceversa. Questo è molto
pratico. Poi, c’è anche la possibilità di studiare, sia chi ha vissuto in
maniera totalitaria la fraternità, ne abbiamo di esempi nella storia
dell’umanità, sia chi è portatore di divisione, distruzione, emarginazione, e
anche quest’ultimi, purtroppo, ne troviamo nella storia passata e recente. Allo
stesso modo, possiamo cercare di capire insieme da dove partire o ripartire.
Sentiamo, non con l’udito, ma dentro di noi, che bisogna agire, osare, agire
osando, osare agendo, ma potremmo anche procedere per tappe, magari partendo da
una domanda, trasformando in negativo questa tensione esistenziale. Ci
proviamo.
La paura di agire nasce dalla paura
di sbagliare. La paura di osare è piuttosto una resistenza al cambiamento.
Capiamo che bisogna cambiare, ma ci opponiamo perché preferiamo costeggiare la
terraferma, invece di andare al largo.
Tocca a ciascuno di noi rispondere,
se vogliamo. E’ maggiore la paura di sbagliare o resistiamo al cambiamento? Il
filo che lega le due domande è la necessità vitale di un forte patto
generazionale, altrimenti non si va da nessuna parte. Tuttavia, non precorriamo
i tempi. Restiamo sulle domande.
Filippo Pagliarulo
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